martedì 1 maggio 2012

COME FOSSE NORMALE

Non è cattivo, sono abbastanza d’accordo.

Lui è casinista, anche se vuole sembrare razionale, freddo e organizzato.
Lui è fragile, anche se vuole sembrare un duro.
Lui è tutte le cose che odia, compresa quella canzone che si sentiva dalla macchina che svoltava la curva, un pomeriggio come tanti, un giorno perso tra tante cose tutte uguali.

Conoscere Annalisa non è stato innamorarsi di lei, perché non di amore si è trattato. E’ stato il limite definitivo per capire e rendersi dolorosamente conto che lui non può fare il marito, non può fare il papà. Non se la sente. Gli fa paura. Perché allora ci sei arrivato, mi verrebbe da chiedergli, ma non è il momento. Forse dopo glielo chiederò. Dopo che si sarà un po’ dimenticato quanto brucia ed è amaro il sapore dell’umiliazione, di sua moglie che gli dice di andare via senza fare troppe storie, lei che ha cercato di limitarsi nella reazione dicendogli soltanto quelle due o tre cose, lei che ha cercato di non piangere urlare o ammazzarlo, in onore dell’amore del bambino che hanno avuto insieme. Non si tratta più solo di noi, ad un certo punto, un figlio è un preciso richiamo ad un senso di responsabilità più alto, che vola e sfiora il sacro, è un bambino, Dario, è solo un bambino e non sa che cosa sia la debolezza, cedere, sentire il profumo della conquista, dell’uomo che è materia irrazionale ed istinto animale, è solo un bambino nella casa che paghi con il mutuo, la lavastoviglie nuova, la cucina laccata, il nuovo quadro in corridoio, i tuoi suoceri al mare che cercano di coccolarvi, la pasta al pomodoro saltato, l’anguria, pranzare tutti insieme a Ferragosto, è solo un bambino che sorride in una foto con te che lo tieni in braccio e sorridi anche tu, è solo un bambino, dipendono da te i segni che lo faranno diventare un adolescente insicuro, un adulto inquieto con i suoi conflitti a fargli un’ingombrante compagnia.

Diventiamo padri ma siamo ancora bambini che hanno voglia di nuovi giocattoli, che si stancano del benessere conquistato e lo sentono già come un nuovo soffocamento e cercano nuova aria da respirare sentendosi ancora vivi perché lei dopo il parto aveva le smagliature, perché lei dopo il matrimonio era come data per scontata, perché lei, se ci pensi e guardi le altre, non è mai stata così carina, e tu avresti comunque potuto meritare di meglio.

Quante cose meschine che si pensano per cercare un alibi.
Voli internazionali, arrivi e partenze, disperate strazianti scene d’addio nei corridoi degli aeroporti, sulle banchine delle stazioni, in soggiorno con le tapparelle abbassate lei che grida tu che parli lei ti lancia i vestiti addosso, lei ti caccia, tu parli, tu pensi, tu vedi, tu vedi che è ora di andare, anche se cerchi di non lasciare il campo di battaglia e di non affondare perché se stasera te ne vai è proprio un guaio perché è vero, è successo per davvero qualcosa di grave, come lo diremo ai nostri genitori, cosa risponderemo ai prossimi amici che ci inviteranno a cena o ci chiederanno quando possono venire perché è stato il compleanno del bambino e non hanno potuto portagli nemmeno un regalino …

E’ che lui di fare il marito non se la sente più, non ce la fa. Di fare il papà forse sì, ma non vuole pensare più a niente, niente fallimento, niente dolore per sé e per gli altri, niente di un’esistenza che sta andando allo sprofondo e se ne porta dietro irrimediabilmente almeno altre due e solo per questo motivo se ne va ancora più giù. Niente da pensare di più di quello che vede dagli occhi chiusi. L’autoradio che è accesa e c’è quella stessa canzone di quella macchina che svoltava la curva un pomeriggio come tanti.
Parla di andare via senza fare troppe storie, senza fare rumore, ma lui quanto rumore dovrà fare sui vetri rotti di tutto questo prima di essere sparito in silenzio?