lunedì 31 ottobre 2011

Luci dall'imbarco.

Alla fine l'ho fatto. E quando ci penso più di un tot, al netto delle distrazioni che macellano i pensieri dentro la testa e in buona sostanza impediscono di focalizzarsi sui dettagli, mi chiedo se sono sano di mente oppure no. In ogni caso non mi interessa, non più di tanto.

Sotto casa mia c'era in vendita un piccolo camion. Un Renault blu, di quelli che usano per fare i traslochi. Lo vedevo tutti i giorni due volte al giorno, quando andavo e tornavo dal lavoro. Ci ho messo un po' a capire che quel camion mi interessava, ma alla fine ho preso coraggio ed ho chiamato il numero del proprietario. Alla fine l'ho comprato. Alla fine ci sono salito sopra, ho preso le cose che mi sembravano più utili, più care o più importanti, le ho caricate, e sono partito.

Partire mi ha sempre dato una sensazione di potere, di libertà assoluta, quella sensazione di poter disporre del proprio tempo nel modo più arbitrario, la percezione di poter imprimere alla propria esistenza le direzioni più inaspettate. Basta saltare un casello, prendere l'uscita prima, fermarsi ad un autogrill piuttosto che ad un altro e la storia, anche se di poco, non è comunque più la stessa.

Mia madre lo sapeva che prima o poi l'avrei fatto davvero, e adesso che finalmente è successo fa il tifo per me. Mi ha dato un Nokia da cinquantanove euro e novanta con una scheda tutta nuova e un numero che non conosce nessuno, mi ha detto di fare ciò che mi fa stare meglio e come unica richiesta mi ha fatto promettere di chiamarla, almeno una volta al giorno, da qualsiasi parte del mondo io riuscirò a passare. Anche con telefonata a carico del destinatario.

Perchè la destinazione, sempre che non cambi idea strada facendo, è il Perù. Non so perchè proprio il Perù, forse perchè mi sembra abbastanza lontano e impegnativo da raggiungere. E' il primo posto che mi è venuto in mente, una sera che bevevo un chinotto con qualcuno dei miei amici al Bar della Martesana, guardavamo passare le macchine in Via Melchiorre Gioia, tutti avevamo un motivo per lamentarci e nessuno ne aveva uno così valido per potersi lamentare davvero. Comunque l'avevo detto, prendo e parto per il Perù. Tutti a sfottermi, stasera l'ho fatto.

Non so come si arrivi in Perù in macchina, io intanto sono partito. Ho deciso che prendo una nave da Livorno, poi magari sbarco in Corsica, poi da lì che ne so. Intanto mi muovo, poi vedo, magari decido che preferisco andare da Ile Rousse a Bonifacio per poi fare un salto in Sardegna, tutto può essere.

Sono le undici di sera, sono passate da poco e da lontano vedo ancora le luci dell'imbarco del porto di Livorno. Nessuno ci crede ancora veramente che io me ne sia andato, per il semplice motivo che ancora nessuno ha cominciato ad organizzare il prossimo fine settimana e di conseguenza non è ancora partito il tradizionale giro di disdette e conferme. Sto scrivendo dal ponte della nave perchè è vero che è una sera di fine ottobre, però l'aria di mare adesso che è quasi notte è una bella sensazione, fascino mentale e fisico, e me la voglio gustare fino a che non comincerà ad essere troppo fredda. Per cui mi accontento di scrivere sotto la luce vaga di una lampadina troppo alta e troppo poco potente perchè io riesca a vedere veramente che cosa stia scrivendo.

Vorrei fare un elenco delle cose da buttare qua sotto, qui dentro in questo mare buio petrolio, vederle volare giù e perderle per sempre senza dovermi preoccupare di ritrovarle in futuro da qualche altra parte in qualche altro momento. Le delusioni, sono la prima cosa che scaraventerei giù dalla nave. Le delusioni che ho preso io e quelle che ho dato, i momenti in cui l'incompatibilità, ai suoi livelli più fantasiosi ed inaspettati, ha fatto sì che si perdesse la possibilità di soddisfare le aspettative altrui o di vedere soddisfatte le proprie.

Certi dolori, certe paure, certi discorsi di fragilità ed insicurezza, butterei giù pure tutto questo. Vedere pezzi del passato che finalmente si disintegrano del tutto e sapere che non torneranno più perchè finalmente cancellati, annientati, distrutti. Dimenticati.

Com'è liberatorio poter dire finalmente.

E poi, e poi non lo so che cos'altro ci butterei, in questo mare. Credo le promesse non mantenute, non mantenute da me e non mantenute dagli altri. Che poi se ci facciamo caso è un discorso che si ricollega alle delusioni. Ci butterei la noia, il tempo sprecato, le volte in cui non ho detto a mio padre una parola carina in più, che cos'altro ... chissà se la luna, a toccarla, brucia come il sole. Brillando di luce riflessa dovrebbe essere un po' meno bollente, no?

Forse ci butterei dentro anche qualche persona, ma no, alla fine le persone basta lasciarsele alle spalle. E' tutto ciò che condividiamo con le persone che può diventare un peso insostenibile, non le persone in sè. Tra noi e le altre persone si può mettere distanza, tra noi e la nostra mente martoriata dai ricordi, no.

Butterei giù dal ponte il mio telefono cellulare, per rinunciare finalmente alla speranza che cominci a squillare perchè la persona che doveva arrivare si è ricordata di me, di noi, di voi, di chiunque in questo momento stia aspettando qualcuno e questo qualcuno non arriva.

Non so che cosa mi aspetto da tutto questo. Dalla mia partenza, intendo. Forse ho bisogno di cercare qualcosa di nuovo, forse ho bisogno di stordirmi talmente tanto di stanchezza, di strada fatta e di strada da fare, di ubriacarmi di nuove storie per nuove persone e con nuovi legami, forse ho bisogno di stordirmi di tutto questo per arrivare ad un punto, ad una soluzione, ad un bilancio che fino ad oggi non ho mai trovato. Forse viaggiare mi fa vanamente pensare che la strada ad un certo punto possa essere solo in discesa.

Intanto sono partito, poi vediamo. Magari torno presto, magari non torno proprio. Le uniche responsabilità che ho sono verso me stesso. Ed è così rilassante vedere il cielo buio in mare aperto, la luna e qualche luce di questa nave che va, va da sola, stanno facendo tutto lei, il capitano e l'equipaggio, il mio furgone è parcheggiato giù verso la stiva e io, stasera, per tutta la notte fino a domani mattina, non ho davvero più niente a cui pensare. Il mio mondo è tutto a Milano, così colorato, così fragoroso, con tutto quel baccano, parole non dette o urlate con troppa velocità, c'è tutto quel baccano e io adesso sono così contento di essere in silenzio, non so quanto durerà, ma mi sembra un'indizio di pace, calma, quiete, serenità. Di equilibrio.

Nessuna domanda, nessuna risposta, nessun timore, nessun turbamento. Non ci sono nemmeno le stelle stasera, quindi non è nemmeno un cielo romantico, è solo un cielo buio, pulito, lineare.
Nessuna persona che vorrei abbracciare, accarezzare, con cui vorrei condividere tutta questa suggestione. Più nessuno. Viaggio da solo, sono fermo qui, a stare seduti sul ponte fa freddo ma mi stringo un po' nel giubbotto e va bene lo stesso. Domani, alle prime luci dell'alba, il capitano ha detto che ci facciamo il caffè col fornelletto della cucina di servizio. In cambio, però, vuole che gli racconti la mia storia.

giovedì 13 ottobre 2011

la RECE: "LA PELLE CHE ABITO" di Pedro Almodovar

L'ultimo Almodovar ha la capacità perturbante di entrare sotto pelle e di rimanere lì avvinghiato al tuo subconscio mentre ti chiedi se ciò che hai visto sia vero. La prospettiva che il regista spagnolo si confrontasse con un horror mi aveva lasciato perplessa, ma anche questa volta Pedro ce la fa mettendo in campo tutte le sue ossessioni analizzandole dal punto di vista più deformato e malato. Lontano anni luce dalle atmosfere sia dello splatter alle Hostel, anche se la sinossi con gli esperimenti malati di un chirurgo poteva far pensare a The Human Centipede, così come lontano dal sovrannaturale con fantasmi tanto in voga nel cinema spagnolo, Almodovar gira un film in cui ciò che agghiaccia sono le relazioni umane e la loro deriva. Partendo dalle sue tipiche ossessioni, lo scambio fra i sessi, gli amori folli, il Kitsch e le atmosfere anni '50, trasforma queste in qualcosa di oscuro e di devastante, in un amore che distrugge anche quello che più vorrebbe amare e si fissa su ciò che non può dare amore, come succede a tutti i personaggi maschili dei suoi film. Ma in questa pellicola anche le donne si rivelano fatali, non più capaci di quella “corrispondenza di amorosi sensi” che le rendeva salvifiche; bruciate da passioni troppo folli, sanno uccidere con leggerezza i loro stessi figli o uccidere se stesse. Nessuno si salva in questo bizzarro triangolo amoroso, in cui nessuno si fida dell'altro e tutti girano armati tra le quattro mura della prigione che si sono scelti. Perchè non c'è peggior carceriere di chi dice di amarti.(Cecil)

martedì 11 ottobre 2011

BROMAZEPAM. Un posto dove andare (seconda parte)

Ferdinando consulta un paio di volte il BlackBerry senza scopo reale, tanto per dare un senso al silenzio improvviso. L’uomo di fronte a lui non c’è più, ma prima di andarsene l’ha guardato un attimo più del normale ed impercettibilmente ha sorriso. Io ho paura delle malattie sessualmente trasmissibili.
Tumori. (Rosa)
Patologie cardiache. (Davide)
Neurodegenerative. (Emanuele)
Il momento peggiore è la mattina, quando mi alzo dal letto. Arrivo al bagno, mi sento proprio male, penso “mò svengo e sbatto contro al lavandino”, in quel momento una persona sana non può stare come sto io. (Rosa)
Ma perché, come stai al mattino? (Davide)
Sto gonfia, mi fa male la testa, sto debole, non mi reggo in piedi. Mi convinco che questo malessere deve voler dire per forza qualcosa. Di tragico, ovviamente.
Io una volta stavo a letto con una persona e mentre ci baciavamo facevo finta di accarezzarle il collo per sentire se aveva i linfonodi gonfi. (Ferdinando)
Molte sere, prima di andare a dormire mi prendo i battiti del cuore per sentire se sono regolari, dicono che di notte si muore più facilmente. (Davide)
Le parole. Sono le parole che mi fanno andare fuori di testa. Magari sono in autostrada che sto tornando da Viareggio, no?, penso a delle cose da dire, o sono al telefono, non mi vengono le parole! Mi dimentico i tempi verbali, uso quelli sbagliati, mi impappino, alla fine non dico più niente e guardo la strada, e son convinto che la malattia ormai sia arrivata, che non ci sia già più niente da fare. (Emanuele)
Li hai mai avuti gli attacchi di panico? (Ferdinando)
Per un anno, almeno due crisi al giorno. (Emanuele)
Io non riuscivo ad andare più in autostrada. Non ho preso la Torino – Venezia per un po’, stavo male sempre allo stesso punto. (Ferdinando)
Che ti sentivi? (Rosa)
Pensavo “adesso mi schianto, adesso mi butto contro il muro e mi schianto”, iniziavo a sudare, tremavo, dovevo fermarmi all’autogrill e scendere dalla macchina. (Ferdinando)
Bromazepam? Tavor? (Davide)
Il medico ci ha provato. Avevo 19 anni, mi sono rifiutato. (Ferdinando)
Per un po’ io ho preso il Lexotan, poi ho smesso e sono andato da uno specialista. Come hai fatto senza farmaci? (Emanuele)
Fiori di Bach. Volevo provarle tutte, prima dei farmaci e della psicoterapia. (Ferdinando)
Perché? (Emanuele)
… ho sempre avuto la convinzione che arrendersi ai medicinali e allo psicologo volesse dire arrendersi all’idea di essere malato veramente. (Ferdinando)
Che cazzata. (Davide)
Tu invece come hai risolto i tuoi problemi di cuore? (Ferdinando)
Mica li ho risolti, ancora. (Davide)
Appunto. (Ferdinando)
Anche mia madre dice sempre che chi va dallo psicologo è pazzo. Il mese scorso mi sono scoperta una cosa, una massa dura sul fianco. Sono pure stata dal medico. (Rosa)
Che ti ha detto? (Ferdinando)
Era una costola fluttuante. Poi mi ha detto: “Signorina, si deve rassegnare a vivere una vita lunga e sana.” (Rosa)
Minchia! (Davide)
Te l’ha tirata! (Emanuele)
Infatti due settimane dopo ho sentito un’ascella più gonfia dell’altra. Però me la sono tenuta così, se ci andavo di nuovo non lo so, quello, che mi diceva! (Rosa)