martedì 20 dicembre 2011

BROMAZEPAM. Un posto dove andare (terza parte)

Quello che ti avrebbe detto chiunque, che il problema ce l’hai nella testa. (Davide)

Madonna quanto sei antipatico. (Rosa)

Realista, mia cara. Realista. (Davide)

Sì, vabbè, … (Rosa)

Secondo voi perché abbiamo tutti questi pensieri? (Ferdinando)

Non lo so. (Emanuele)

Dallo stereo del bar, Loredana Bertè, “Indocina”.

A volte ho paura di suicidarmi. (Davide)

Che vuol dire “Hai paura” di suicidarti? (Rosa)

Che ho paura di arrivare al punto di perdere il controllo, che mi prenda un raptus e … avete capito, dai. (Davide)

Madò che brutti i raptus! (Rosa)

Brutti, sì. (Ferdinando)

Anche io avevo una “paura” del genere, tempo fa, impazzire ed ammazzare qualcuno. (Emanuele)

Brutta anche questa. (Ferdinando)

Vero! (Rosa)

Brutta, davvero. Avevo paura di poter fare male alla mia ragazza, a mia madre, a mio padre, … (Emanuele)

Dallo stereo del bar, Alberto Fortis, “Svegliati amore con me”.

Sei fidanzato? (Ferdinando)

Non più, ci siamo lasciati due mesi fa. (Emanuele)

Ti ha lasciato lei! (Davide)

L’ho lasciata io, …

Ma quanto sei stronzo, oh! (Rosa)

A voi non fa impressione dire i nomi delle malattie? (Ferdinando)

A me sì, tanto. (Rosa)

Anche a me. (Emanuele)

Sì, anche a me. (Davide)

Perché non ne diciamo un po’? (Rosa)

Di che? (Davide)

Di malattie. A turno diciamo la malattia peggiore che ci viene in mente! (Rosa)

venerdì 18 novembre 2011

la RECE di CECIL: "I tre moschiettieri" di Paul W.S. Anderson

Prendete Dumas e mettetelo da parte, anzi buttatelo via, lanciatelo proprio. Fate il pieno invece di tutta la pop culture degli ultimi 20 anni di tutto ciò che la televisione commerciale, Mtv in testa, ha fatto entrare nelle nostre vite in quel lasso di tempo ed avrete un'idea precisa dell'ultima trasposizione cinematografica de “I tre moschettieri”.  Tralasciando la dichiarata ispirazione ad un'estetica steam – punk, che avrebbe potuto pure essere un'interessante rilettura di questo classico romanzo d'avventura, quello che rimane impresso non sono dunque le navi volanti (basate su studi di Leonardo? Ecco un altro che si sta rivoltando nella tomba), i trabocchetti mortali, le armi sperimentali e i “piani ben riusciti”, che fanno molto “A-Team”, ma l'agghiacciante trama dei collant di Luigi XIII e, alla fine di un duetto tra Sua Maestà e il Duca di Buckingham (conciato come  George Michael quando cantava “Wake Me Up before you Go-Go”) sulla moda londinese dell'inverno, ti aspetti di vedere comparire Enzo Miccio a spiegarti l'occasione d'uso dei pantaloni a palloncino. Aveva proprio ragione Woody Allen quando diceva: “La vita non imita l'arte, imita la cattiva televisione”. A questo punto mancava solo che uno dicesse “I't a Jersey thing” e saremmo stati a posto per sempre. (Cecil)

lunedì 31 ottobre 2011

Luci dall'imbarco.

Alla fine l'ho fatto. E quando ci penso più di un tot, al netto delle distrazioni che macellano i pensieri dentro la testa e in buona sostanza impediscono di focalizzarsi sui dettagli, mi chiedo se sono sano di mente oppure no. In ogni caso non mi interessa, non più di tanto.

Sotto casa mia c'era in vendita un piccolo camion. Un Renault blu, di quelli che usano per fare i traslochi. Lo vedevo tutti i giorni due volte al giorno, quando andavo e tornavo dal lavoro. Ci ho messo un po' a capire che quel camion mi interessava, ma alla fine ho preso coraggio ed ho chiamato il numero del proprietario. Alla fine l'ho comprato. Alla fine ci sono salito sopra, ho preso le cose che mi sembravano più utili, più care o più importanti, le ho caricate, e sono partito.

Partire mi ha sempre dato una sensazione di potere, di libertà assoluta, quella sensazione di poter disporre del proprio tempo nel modo più arbitrario, la percezione di poter imprimere alla propria esistenza le direzioni più inaspettate. Basta saltare un casello, prendere l'uscita prima, fermarsi ad un autogrill piuttosto che ad un altro e la storia, anche se di poco, non è comunque più la stessa.

Mia madre lo sapeva che prima o poi l'avrei fatto davvero, e adesso che finalmente è successo fa il tifo per me. Mi ha dato un Nokia da cinquantanove euro e novanta con una scheda tutta nuova e un numero che non conosce nessuno, mi ha detto di fare ciò che mi fa stare meglio e come unica richiesta mi ha fatto promettere di chiamarla, almeno una volta al giorno, da qualsiasi parte del mondo io riuscirò a passare. Anche con telefonata a carico del destinatario.

Perchè la destinazione, sempre che non cambi idea strada facendo, è il Perù. Non so perchè proprio il Perù, forse perchè mi sembra abbastanza lontano e impegnativo da raggiungere. E' il primo posto che mi è venuto in mente, una sera che bevevo un chinotto con qualcuno dei miei amici al Bar della Martesana, guardavamo passare le macchine in Via Melchiorre Gioia, tutti avevamo un motivo per lamentarci e nessuno ne aveva uno così valido per potersi lamentare davvero. Comunque l'avevo detto, prendo e parto per il Perù. Tutti a sfottermi, stasera l'ho fatto.

Non so come si arrivi in Perù in macchina, io intanto sono partito. Ho deciso che prendo una nave da Livorno, poi magari sbarco in Corsica, poi da lì che ne so. Intanto mi muovo, poi vedo, magari decido che preferisco andare da Ile Rousse a Bonifacio per poi fare un salto in Sardegna, tutto può essere.

Sono le undici di sera, sono passate da poco e da lontano vedo ancora le luci dell'imbarco del porto di Livorno. Nessuno ci crede ancora veramente che io me ne sia andato, per il semplice motivo che ancora nessuno ha cominciato ad organizzare il prossimo fine settimana e di conseguenza non è ancora partito il tradizionale giro di disdette e conferme. Sto scrivendo dal ponte della nave perchè è vero che è una sera di fine ottobre, però l'aria di mare adesso che è quasi notte è una bella sensazione, fascino mentale e fisico, e me la voglio gustare fino a che non comincerà ad essere troppo fredda. Per cui mi accontento di scrivere sotto la luce vaga di una lampadina troppo alta e troppo poco potente perchè io riesca a vedere veramente che cosa stia scrivendo.

Vorrei fare un elenco delle cose da buttare qua sotto, qui dentro in questo mare buio petrolio, vederle volare giù e perderle per sempre senza dovermi preoccupare di ritrovarle in futuro da qualche altra parte in qualche altro momento. Le delusioni, sono la prima cosa che scaraventerei giù dalla nave. Le delusioni che ho preso io e quelle che ho dato, i momenti in cui l'incompatibilità, ai suoi livelli più fantasiosi ed inaspettati, ha fatto sì che si perdesse la possibilità di soddisfare le aspettative altrui o di vedere soddisfatte le proprie.

Certi dolori, certe paure, certi discorsi di fragilità ed insicurezza, butterei giù pure tutto questo. Vedere pezzi del passato che finalmente si disintegrano del tutto e sapere che non torneranno più perchè finalmente cancellati, annientati, distrutti. Dimenticati.

Com'è liberatorio poter dire finalmente.

E poi, e poi non lo so che cos'altro ci butterei, in questo mare. Credo le promesse non mantenute, non mantenute da me e non mantenute dagli altri. Che poi se ci facciamo caso è un discorso che si ricollega alle delusioni. Ci butterei la noia, il tempo sprecato, le volte in cui non ho detto a mio padre una parola carina in più, che cos'altro ... chissà se la luna, a toccarla, brucia come il sole. Brillando di luce riflessa dovrebbe essere un po' meno bollente, no?

Forse ci butterei dentro anche qualche persona, ma no, alla fine le persone basta lasciarsele alle spalle. E' tutto ciò che condividiamo con le persone che può diventare un peso insostenibile, non le persone in sè. Tra noi e le altre persone si può mettere distanza, tra noi e la nostra mente martoriata dai ricordi, no.

Butterei giù dal ponte il mio telefono cellulare, per rinunciare finalmente alla speranza che cominci a squillare perchè la persona che doveva arrivare si è ricordata di me, di noi, di voi, di chiunque in questo momento stia aspettando qualcuno e questo qualcuno non arriva.

Non so che cosa mi aspetto da tutto questo. Dalla mia partenza, intendo. Forse ho bisogno di cercare qualcosa di nuovo, forse ho bisogno di stordirmi talmente tanto di stanchezza, di strada fatta e di strada da fare, di ubriacarmi di nuove storie per nuove persone e con nuovi legami, forse ho bisogno di stordirmi di tutto questo per arrivare ad un punto, ad una soluzione, ad un bilancio che fino ad oggi non ho mai trovato. Forse viaggiare mi fa vanamente pensare che la strada ad un certo punto possa essere solo in discesa.

Intanto sono partito, poi vediamo. Magari torno presto, magari non torno proprio. Le uniche responsabilità che ho sono verso me stesso. Ed è così rilassante vedere il cielo buio in mare aperto, la luna e qualche luce di questa nave che va, va da sola, stanno facendo tutto lei, il capitano e l'equipaggio, il mio furgone è parcheggiato giù verso la stiva e io, stasera, per tutta la notte fino a domani mattina, non ho davvero più niente a cui pensare. Il mio mondo è tutto a Milano, così colorato, così fragoroso, con tutto quel baccano, parole non dette o urlate con troppa velocità, c'è tutto quel baccano e io adesso sono così contento di essere in silenzio, non so quanto durerà, ma mi sembra un'indizio di pace, calma, quiete, serenità. Di equilibrio.

Nessuna domanda, nessuna risposta, nessun timore, nessun turbamento. Non ci sono nemmeno le stelle stasera, quindi non è nemmeno un cielo romantico, è solo un cielo buio, pulito, lineare.
Nessuna persona che vorrei abbracciare, accarezzare, con cui vorrei condividere tutta questa suggestione. Più nessuno. Viaggio da solo, sono fermo qui, a stare seduti sul ponte fa freddo ma mi stringo un po' nel giubbotto e va bene lo stesso. Domani, alle prime luci dell'alba, il capitano ha detto che ci facciamo il caffè col fornelletto della cucina di servizio. In cambio, però, vuole che gli racconti la mia storia.

giovedì 13 ottobre 2011

la RECE: "LA PELLE CHE ABITO" di Pedro Almodovar

L'ultimo Almodovar ha la capacità perturbante di entrare sotto pelle e di rimanere lì avvinghiato al tuo subconscio mentre ti chiedi se ciò che hai visto sia vero. La prospettiva che il regista spagnolo si confrontasse con un horror mi aveva lasciato perplessa, ma anche questa volta Pedro ce la fa mettendo in campo tutte le sue ossessioni analizzandole dal punto di vista più deformato e malato. Lontano anni luce dalle atmosfere sia dello splatter alle Hostel, anche se la sinossi con gli esperimenti malati di un chirurgo poteva far pensare a The Human Centipede, così come lontano dal sovrannaturale con fantasmi tanto in voga nel cinema spagnolo, Almodovar gira un film in cui ciò che agghiaccia sono le relazioni umane e la loro deriva. Partendo dalle sue tipiche ossessioni, lo scambio fra i sessi, gli amori folli, il Kitsch e le atmosfere anni '50, trasforma queste in qualcosa di oscuro e di devastante, in un amore che distrugge anche quello che più vorrebbe amare e si fissa su ciò che non può dare amore, come succede a tutti i personaggi maschili dei suoi film. Ma in questa pellicola anche le donne si rivelano fatali, non più capaci di quella “corrispondenza di amorosi sensi” che le rendeva salvifiche; bruciate da passioni troppo folli, sanno uccidere con leggerezza i loro stessi figli o uccidere se stesse. Nessuno si salva in questo bizzarro triangolo amoroso, in cui nessuno si fida dell'altro e tutti girano armati tra le quattro mura della prigione che si sono scelti. Perchè non c'è peggior carceriere di chi dice di amarti.(Cecil)

martedì 11 ottobre 2011

BROMAZEPAM. Un posto dove andare (seconda parte)

Ferdinando consulta un paio di volte il BlackBerry senza scopo reale, tanto per dare un senso al silenzio improvviso. L’uomo di fronte a lui non c’è più, ma prima di andarsene l’ha guardato un attimo più del normale ed impercettibilmente ha sorriso. Io ho paura delle malattie sessualmente trasmissibili.
Tumori. (Rosa)
Patologie cardiache. (Davide)
Neurodegenerative. (Emanuele)
Il momento peggiore è la mattina, quando mi alzo dal letto. Arrivo al bagno, mi sento proprio male, penso “mò svengo e sbatto contro al lavandino”, in quel momento una persona sana non può stare come sto io. (Rosa)
Ma perché, come stai al mattino? (Davide)
Sto gonfia, mi fa male la testa, sto debole, non mi reggo in piedi. Mi convinco che questo malessere deve voler dire per forza qualcosa. Di tragico, ovviamente.
Io una volta stavo a letto con una persona e mentre ci baciavamo facevo finta di accarezzarle il collo per sentire se aveva i linfonodi gonfi. (Ferdinando)
Molte sere, prima di andare a dormire mi prendo i battiti del cuore per sentire se sono regolari, dicono che di notte si muore più facilmente. (Davide)
Le parole. Sono le parole che mi fanno andare fuori di testa. Magari sono in autostrada che sto tornando da Viareggio, no?, penso a delle cose da dire, o sono al telefono, non mi vengono le parole! Mi dimentico i tempi verbali, uso quelli sbagliati, mi impappino, alla fine non dico più niente e guardo la strada, e son convinto che la malattia ormai sia arrivata, che non ci sia già più niente da fare. (Emanuele)
Li hai mai avuti gli attacchi di panico? (Ferdinando)
Per un anno, almeno due crisi al giorno. (Emanuele)
Io non riuscivo ad andare più in autostrada. Non ho preso la Torino – Venezia per un po’, stavo male sempre allo stesso punto. (Ferdinando)
Che ti sentivi? (Rosa)
Pensavo “adesso mi schianto, adesso mi butto contro il muro e mi schianto”, iniziavo a sudare, tremavo, dovevo fermarmi all’autogrill e scendere dalla macchina. (Ferdinando)
Bromazepam? Tavor? (Davide)
Il medico ci ha provato. Avevo 19 anni, mi sono rifiutato. (Ferdinando)
Per un po’ io ho preso il Lexotan, poi ho smesso e sono andato da uno specialista. Come hai fatto senza farmaci? (Emanuele)
Fiori di Bach. Volevo provarle tutte, prima dei farmaci e della psicoterapia. (Ferdinando)
Perché? (Emanuele)
… ho sempre avuto la convinzione che arrendersi ai medicinali e allo psicologo volesse dire arrendersi all’idea di essere malato veramente. (Ferdinando)
Che cazzata. (Davide)
Tu invece come hai risolto i tuoi problemi di cuore? (Ferdinando)
Mica li ho risolti, ancora. (Davide)
Appunto. (Ferdinando)
Anche mia madre dice sempre che chi va dallo psicologo è pazzo. Il mese scorso mi sono scoperta una cosa, una massa dura sul fianco. Sono pure stata dal medico. (Rosa)
Che ti ha detto? (Ferdinando)
Era una costola fluttuante. Poi mi ha detto: “Signorina, si deve rassegnare a vivere una vita lunga e sana.” (Rosa)
Minchia! (Davide)
Te l’ha tirata! (Emanuele)
Infatti due settimane dopo ho sentito un’ascella più gonfia dell’altra. Però me la sono tenuta così, se ci andavo di nuovo non lo so, quello, che mi diceva! (Rosa)

mercoledì 28 settembre 2011

BROMAZEPAM. Un posto dove andare (prima parte)

Emanuele controlla la macchina fuori, ha paura dei divieti di sosta. La ricerca dell’assoluto ha rotto le palle. E’ uno sforzo sovrumano che costringe le persone a posizioni estreme, ad astrazioni ed impegni concettuali che obbligano a fermarsi sul limite delle virtù, a perseguire l’innaturale obiettivo di azzerare i margini di errore, di assumere un punto di vista totale, ricerca di una verità impossibile per una creatura così intrinsecamente parziale come l’essere umano. Chiedere di non sbagliare e di capire tutto, a qualcuno che per sua natura sbaglia di continuo e comprende solo le porzioni di realtà a cui decide di credere. Assurdo.
Davide non usava il termine “intrinsecamente” almeno dal tema dell’esame di stato, ci ride su con una smorfia di leggero disprezzo. Non è l’essere umano che deve diventare assoluto, l’assoluto è il completamento di qualcuno che questa ricerca la fa per riempire un vuoto, arricchire la propria identità, rimediare ad un tormento. L’assoluto è altro dall’essere umano.
Emanuele gira tra le dita l’anello del portachiavi della macchina. Certi esseri umani cercano di essere assoluti, ma non ce la fanno e impazziscono. Un caffè, grazie.
Si vede che è il modo sbagliato di compiere la propria ricerca. Un caffè anche per me.
Rosa aspetta una cioccolata calda. La ricerca dell’assoluto detta così non vuole dire niente. Uno fa una scelta a monte. Decide se ‘sta cosa la vuole cercare dentro o fuori di sé. Se la cerca dentro, come dice Ema, come fanno magari gli artisti, o è abbastanza forte per tutti gli estremi del pensiero o esce fuori di testa.
Ferdinando spedisce due e-mail importanti dal BlackBerry e guarda con finta noncuranza un uomo seduto al tavolo di fronte. È alto, brizzolato, vestito bene. Sfoglia documenti con delle cifre. Chissà che lavoro fa. Beve un succo di frutta. La sapete quella canzone di Neffa? Non mi ricordo come si chiama … però dice “c’è una sola direzione per uscire da qui. Ed è arrendersi incondizionatamente all’amore e dire di sì.” Magari la soluzione è arrendersi ad arrivare fin dove riusciamo, gli esseri umani sono parziali, come dici tu. Se rinunciassimo all’eccellenza ci guadagneremmo. Magari poi è vero che basterebbe arrendersi solo all’amore, forse è l’unica forma di assoluto. Per me un succo alla pera, grazie.
Bella stronzata, pure l’amore. (Rosa)
Non sono d’accordo. Dipende dalla forma d’amore. Se pensi all’amore sentimentale ti do ragione. Ma se pensi all’amore per Dio, o all’amore che Dio dà alle persone secondo i credenti, quella è una forma di assoluto, è la forma di amore assoluto che dice Ferdi. Ti posso chiamare Ferdi? (Davide)
Chiamami Ferdi.
Io non ho trovato nessuna forma di assoluto in grado di aiutarmi. Uno dei caffè è per me, grazie. (Emanuele)
L’altro caffè qui. Se parli così è evidente che hai una necessità da affrontare. (Davide)
Ho lo stesso problema che avete voi. Per te non è un problema avere tutti i giorni paura di morire? (Emanuele)
Beh, ma quella è una causa o un effetto? Cioccolata a me, ti ringrazio tanto! (Rosa)
Ad un certo punto non lo so più. Mi massacro di pensieri, c’è la stanchezza, l’insoddisfazione, poi mi sento i sintomi e non capisco più niente. (Emanuele)
Ah, ma allora è ufficiale, stiamo tirando fuori IL DISCORSO? (Rosa)

venerdì 19 agosto 2011

martedì 26 luglio 2011

Ritorno a Le Bazze (quarta ed ultima parte)


Io lo so che ci ha provato sinceramente. A farsi andar bene il ritorno a casa, la nuova convivenza con mamma e papà, la non-possibilità di raccontare ai vecchi ritrovati amici la sua storia di ricerca ed esperimenti (vecchi amici ormai strutturati su un lavoro sicuro, un progetto di famiglia, qualcuno già con un bambino), e soprattutto la non-possibilità di essere compresa. So che ha provato con impegno ad essere garbata con questo quartiere e questa famiglia che l’hanno protetta e cresciuta. So che almeno per un momento ha considerato davvero, con serietà, senno, sforzo di maturità e giudizio, di tornare alle Bazze e di mettersi finalmente a fare una vita normale. Apprendista parrucchiera al salone della Betty. Segretaria alle assicurazioni di Piazza Bernardo, tutto in regola, messa a libri, e dove lo trovi un posto così al giorno d’oggi? Banconista al CRAI della statale, ma solo per l’estate, per tirar su qualche soldo. Cassiera al bar del Pino, che anche se non fai i caffè impari presto. E poi magari vi prendete una casetta qui vicino, te e il Mauro, il ragioniere della fabbrica lo conosco bene, se il Mauro non trova niente magari lo si sistema alle Ceramiche … oppure puoi sempre cercare qualcosa al LeBazze, che ci son tanti di quei negozi …

E’ l’ingenuità che a volte fa più male. L’ingenuità di genitori rimasti sempre un po’ scollati dalla vita di questa figlia strana e rimasti sempre un po’ attaccati ad un solo modello, il loro. Genitori che ci hanno provato, a capire questa figlia inquieta. E credo che ci proveranno di nuovo, quando lei gliene ridarà la possibilità.
Ci diciamo queste cose, io e la Ziska. Siamo in autogrill, tra poco inizierà ad albeggiare e mancano 50 km a Milano.

“Almeno chiamali i tuoi però.” le dico io.

giovedì 7 luglio 2011

Ritorno a Le Bazze (terza parte)


La Ziska ha sempre odiato tutto questo. Perché, come dicevamo prima, il tempo alle Bazze non passa mai. Certo, io credo che non passi mai per chi morde il freno già di suo, per chi ha l’impazienza di cercare, partire, andare, tornare, fare, disfare. La Ziska è così, legata ad un’inquietudine che a 19 anni l’ha catapultata a Milano. E’ che la Ziska l’inquietudine ce l’ha di carattere. Di fondo è sempre un po’ insoddisfatta, ha bisogno di cambiare ogni quel tanto per sentirsi viva e non appiattita, schiacciata, appesantita dagli schemi, dalla routine. Ziska ha paura della noia. E allora, la risposta è una girandola di eventi. Via dalle Bazze verso Milano. Università: lettere. Primo semestre non ingrana, troppo simile al liceo. Via, si cambia. Rinuncia ufficiale agli studi e oplà, a ottobre dell’anno dopo una nuova sfida, lingue. E poi il lavoro, per non essere troppo legata ai soldi dei suoi e diventare indipendente. Cameriera al bar, al ristorante, nei pub. PR per le discoteche, periodo fighetto. Commessa d’alta moda, accessori, lusso e gioielleria. Showroom della Mercedes Benz. Centralinista per azienda chimica. Maschera al cinema. Donna delle pulizie a insaputa dei suoi. E per finire di nuovo commessa, settore giocattoli e prima infanzia. L’università diventa una vita parallela fatta di battute d’arresto e rilanci. Ad oggi, finalmente, le mancano un esame e la tesi. Sentimentalmente Mauro, il suo opposto. Metodico, preciso, ragionato, creatura di Economia e Commercio. Dolce e simpatico. Quasi bruttino, ma in fondo un tipo. Insomma, tutto questo è la Ziska. 

Che ad un certo punto scopre il teatro e la recitazione. Finalmente un rimedio all’inquietudine. Il palcoscenico come terapia. Banale a dirsi, ma ha iniziato a funzionare. Ed ha iniziato a funzionare talmente bene che dal corso è entrata nella compagnia della scuola, prima qualche spettacolo, poi una piccola tournée, poi una media tournée, poi la grande proposta: lunga tournée di cinque mesi in tutta Italia e qualche punta in Europa, con addirittura un abbozzo di retribuzione, piccola ma esistente, reale. Per Francesca “Ziska” Bertotti delle Bazze di Ravenna, un sogno che si avvera. In più c’è da dire che la Ziska come attrice se la cava davvero: è sanguigna, viscerale, aggredisce il pubblico a colpi di impatti percettivi. Scarica l’inquietudine sulla platea. Questa cosa ci faceva impressione al corso, perché lo vedevamo tutti che c’era un carattere quasi animalesco che premeva per esondare, tracimare, esplodere. Ziska in scena restituiva meglio di tutti noi la carne, le vene, il sangue, le ossa, i garbugli emotivi, l’amore, il sesso, la passione … una specie di sublime disperazione del vivere. Ma la tournée alla fine non è partita e la richiesta di aspettativa al lavoro era già stata accettata. Ha tentato in tutti i modi di barcamenarsi con i soldi che le erano rimasti. Quando li ha finiti, non ha potuto che tornare alle Bazze, almeno per un po’.

sabato 2 luglio 2011

Ritorno a Le Bazze (seconda parte)

Una volta la Ziska mi ha detto che il problema delle Bazze è che qui il tempo non passa mai, non cambia mai niente. Adesso che ci sono stato capisco che è vero. Magari deducendolo da suggestioni innocue, però è sembrato così anche a me. A parte il centro commerciale (che anche lui mostra comunque i segni del tempo, con una struttura architettonica decisamente antiquata e il suo numero ingenuamente esiguo di negozi, trentacinque. Oggi che i centri commerciali di nuova generazione si sfidano a colpi di cento, centocinquanta, duecento negozi a botta), ci sono gli "esercizi commerciali di quartiere" che hanno le insegne tipiche di vent'anni fa. La salumeria, il CRAI, la posta, la Asl, la tabaccheria, il panettiere, il negozietto di abbigliamento che fa il verso alle boutiques del centro ... alle Bazze sembra di essere dentro il 1990. In pieno. E' un po' quella sensazione che si avverte nel transito dalla contemporaneirtà di Milano Nord alla modernità vetusta di via dei Missaglia e tutta Milano Sud. Le Bazze in fondo sanno anche un po' di nostalgico. Qui ti aspetti di sentire dall'autoradio (a cassette) di qualche Fiat Ritmo o Seat Marbella l'ultima canzone di Marco Masini, "T'innamorerai", "Bella stronza" (?!). Dal tv color Mivar del Bar Tabacchi potresti vedere Gianna Nannini ed Edoardo Bennato che aprono i Mondiali con "Notti magiche", non Shakira con "Waka waka".

Visto da fuori, questo incastro del tempo può anche avere il suo fascino, una specie di testimonianza che quel periodo è esistito davvero, è passato da qui e qui si è fermato. Per chi negli anni Novanta aveva dieci anni, come me, è un po' come tornare nei luoghi dell'infanzia, luoghi che sopravvivono incontaminati, sopravvivono nella realtà e non solo nella mitizzazione del ricordo.

Vado via dal set perché.

Il set è gratis.

Mò basta.

Era il sesto (!)

Rispetto chi ne sa più di me.

Comincio con l'OT (!!)

Domani debutto al Quirino.

O è la macchina sulla ghiaia o sta cominciando a piovere.

Puzzo.

Ho fame.

Potevo impiegare meglio il mio tempo.

Davide, Giacomo, Costanza e Thomas. Firenze, 6 Giugno 2011. Mentre giocavano a Roberto Saviano e Fabio Fazio in "Vieni via con me".

venerdì 1 luglio 2011

RECENSIONI di SALA: "I guardiani del destino"

Scordatevi le lunghe vesti bianche che sfumano nella luce soffusa e le grosse ali piumate, gli angeli vestono completi dal taglio sartoriale e il Borsalino d'ordinanza (non puoi farne a meno, credo, se sei appena uscito da set di Mad Men). Questi 007 che hanno in mano il destino degli umani, stanno rimettendo nella giusta traiettoria la carriera di un brillante e giovane politico, la cui irruenza l'ha messo spesso nei guai. Stavolta, per aver mostrato le chiappe alla cena di una confraternita, perde le elezioni; nello stesso momento, però, incontra la donna della sua vita. Il classico colpo di fulmine, che forse solo il cinema sa regalare: la frase giusta al momento giusto, il vestito giusto, la scena giusta. Ma questo “matrimonio” non s'ha da fare, non è nel piano, e allora che fare, come fare a stare lontani se ogni passo li porta sempre uno verso l'altro? È la classica storia romantica, quella che alla fine ti porta a crederci ai “ti amerò per sempre”, ai “non ci lasceremo mai” e “starò con te per sempre”, raccontata però come un film d'azione. A frapporsi fra i due sfortunati amanti infatti, un esercito in doppio petto che può controllare lo spazio e il tempo, e che solo la tenacia, la pietà e l'amore possono sconfiggere. Matt Damon è abituato a correre dai tempi di Jason Bourne, Emily Blunt fa la ballerina, che a quanto sembra ad Hollywood va molto di moda, New York è un palcoscenico magnifico, che sembra incombere sui protagonisti, incapaci di sottrarsi ad un destino già scritto da altri. Ma il film è un meccanismo perfetto, difficile da raggiungere quando si gioca con la fantascienza, ogni pezzo deve combaciare, sennò addio teorie, addio universi paralleli, le regole devono valere sempre, in ogni scena, in ogni inquadratura. E qui ogni cosa regge alla grande. (Cecil)

venerdì 24 giugno 2011

RECENSIONI di SALA: "X-MEN - L'inizio"


Ci metti un po' a capire cosa c'è che non va. È una sottile inquietudine che ti penetra sotto la pelle. Non sai cosa sia, non sai cosa la possa aver scatenata. Stai lì seduto e guardi. Guardi le scene, i costumi, le facce, nulla ti entusiasma, nulla sembra familiare. E poi d'improvviso, lo capisci cosa c'è che non va, perché sullo schermo appare lui. I capelli con la sfumatura alta, le lunghe basette, il sigaro, lo zippo e il bicchiere di whisky in cui annegare i ricordi della sua lunga vita. Pronuncia solo un sonoro “vaffanculo”, ma il tuo cuore inizia a battere a mille. Lo riconosci, eccolo lì, ecco cos'è che mancava: l'aria strafottente, il cinismo, e i lunghi artigli di adamantio. Ebbene sì, ecco di cosa ci si rende conto. È vero che ho amato gli X-Men grazie ad un cartone che trasmettevano su Italia 1 alle 7.00 prima di andare a scuola, ma ciò che mi ha portato al cinema, a vedere i tre precedenti capitoli della saga e lo spin – off tutto incentrato su di lui, era proprio la figura dell'insegnante d'arte della scuola di Charles Xavier. Il resto non contava, perdeva importanza di fronte a Hugh Jackman che si muoveva sullo schermo nei panni mai così azzeccati di Wolverine. E la sua mancanza si sente, il suo sex appeal grezzo e animale, non viene compensato né da un Michael Fassbender dagli occhi e dal cuore d'acciaio, né da un James McAvoy che purtroppo perde la partita di fianco all'amico/rivale rivelando una nanezza non certo di charme (impietoso il confronto tra i due con addosso la tutina grigia).
Insomma X-Men l'inizio perde il suo personaggio più caratterizzante, senza trovarne un altro con lo stesso carisma, che possa risollevare una storia interessante (con un sottotesto politico affascinante da analizzare, ad esempio il fatto che chi predica lo sterminio dei non mutanti sia un sopravvissuto all'olocausto, la storia è ciclica, etc), ma lasciata a se stessa dal punto di vista registico. (Cecil)