lunedì 28 febbraio 2011

Figlio della città (seconda parte)


E’ questa la favolosa età della spensieratezza? E poi la vita vera è molto più dura? Bruno che brutta questa stanza, io odio questo ospedale, li odio tutti, odio le ambulanze e quando la notte passano sotto casa metto la testa sotto il cuscino perché mi mettono angoscia. Siamo solo noi due in questa stanza e questo camice verde che ho addosso mi fa sentire come il Dottor Greene di ER, ma io non sono come lui, io non mi rispecchio in nessun luogo comune sui giovani. Io non mi rispecchio in nessun modello, e vorrei tanto poterlo fare, poter rientrare nelle crudeli statistiche dei giornali che fanno sondaggi su dove preferiscono andare i giovani d’estate per divertirsi. Perché sono così? Perché io non riesco? Perché pensare alla mia vita mi fa stare così? Ho paura di pensarlo, di dirlo, ma pensare alla mia vita mi fa stare…male. E so che non dovrei, perché anche io come te sono un ingrato, perché la mia famiglia mi adora ed ho una media invidiabile ed ogni cosa che faccio va bene ed è un successo. Ma mi manca un’arma contro questo senso di solitudine che mi fa tremare, ed ogni sera passata davanti alla televisione mi sembra una conferma della mia incapacità. Incapace nel relazionarsi…sembra uno stronzissimo libro di qualche psicologo che va da Costanzo…sarà che sono un degenere figlio della città, sarà che Milano crea mostri di solitudine e depressione. Se tu mi stessi ascoltando adesso mi diresti che le mie sono tutte paranoie e che non devo andare in sbattimento…e non ti crederei più. Perché tu non me l’avevi detto che ti calavi, non mi hai mai detto niente, tu hai sempre recitato la parte del simpatico, di quello sereno, senza problemi. E intanto ti buttavi giù la merda. Ma forse lo facevi per gioco, perché era divertente, perché era moda. Ma quasi mi sento consolato, se anche tu sei crollato vuol dire che tutti fanno i conti con qualcosa, che nessuno è felice veramente.